In una lunga intervista, Mauricio Rosencof, commediografo e amico del Pepe Mujica, presidente dell’Uruguay dal 2010 al 2015, racconta gli anni di lotta e di carcere, durante la dittatura. Ripubblico questa intervista di 10 anni fa perché ho molto a cuore la libertà di pensiero e d’azione. Ora il Frente Amplio che sosteneva Mujica ha appena rivinto le elezioni.
Quando sono partita per l’Uruguay a luglio del 2014, avrei voluto intervistare el Pepe, un uomo che si è fatto conoscere in tutto il mondo, per aver rinunciato al 90% del suo stipendio da capo dello stato e alla casa presidenziale. La sua frase che mi è rimasta scolpita nel cervello è: «Povero è chi desidera avere sempre di più». Il presidente Mujica ha dato in beneficienza il 90% del suo stipendio e ha deciso di vivere in un quartiere povero di periferia, piuttosto che nel suntuoso palazzo presidenziale.
Invece, il regista teatrale Mario Jorio mi ha dirottato sul commediografo Mauricio Rosencof, compagno di prigionia del Pepe Mujica durante la dittatura degli anni Settanta, e che su quella terribile esperienza ha scritto un libro La Memorias del Calabozo.
Ottima idea, ho pensato, il Pepe lo hanno intervistato tutte le testate giornalistiche del mondo, Rosencof invece molte meno.
Montevideo, 19 agosto 2014. Sto suonando al citofono della casa di Montevideo di Mauricio Rosencof, è a un centinaio di metri dalla lunghissima Rambla che cinge la città e dà sul Rio della Plata. Un appartamento normale, in un altro Paese non si direbbe che ci abiti un amico intimo del Presidente. Ma in Uruguay succede anche questo. Zeppa di libri e di targhe, foto appese al muro che raccontano la vita di un ebreo esule, che è stato dirigente del Movimento di Liberazione Nazionale uruguayano, meglio conosciuto come Tupamaros.
Arrestato nel 1972, con il Pepe Mujica e il Ñeto (Fernandez Huidobro, ministro della Difesa del governo Mujica), è stato ripetutamente torturato e dichiarato ostaggio dalle autorità golpiste.
Sono stati liberati tutti nel 1985.
Una mattina in compagnia di Mauricio Rosencof
La mattina che passo in sua compagnia è piena di racconti e di parole. Un’occasione succosa per vedere trascorrere davanti ai miei occhi avidi la storia del continente Sudamericano. In America Latina mi sento a casa.
Rosencof mi dà subito del tu, come se fossimo cari amici. Ha la battuta pronta. Ama scherzare e ridere. Un uomo sereno, nonostante tutto quello che ha passato, forse perché sa bene da che parte stare.
I tuoi compagni di prigionia, el Pepe e el Ñeto, sono diventati uno presidente dell’Uruguay e l’altro Ministro della difesa, e capo dell’esercito…
Mauricio Rosencof: «Chissà, forse non è vero niente. Sto semplicemente vivendo dentro a una di quelle allucinazioni che mi afferravano in carcere chiuso in quel pozzo, chiamato calabozo!
La nostra – se è vera (ironizza) – è una storia che non sarebbe mai passata per la testa neanche a Ray Bradbury o a Jules Verne. La finzione, anche quella più bruciante, a volte non riesce a restituire il delirio che la stessa vita produce.
È proprio incredibile pensare che il Pepe Mujica sia diventato presidente della Repubblica e Huidobro, ministro della Difesa. Fa tutto parte della stessa follia della vita (ride). Siamo riusciti a tenere una luce accesa dentro di noi, ed è servito.
Quando, nel 1985, siamo usciti dalla prigione, tutto è stato molto rapido. Non abbiamo neanche avuto il tempo di pensare a quello che stava succedendo. Siamo entrati in carcere che eravamo soli, quando siamo usciti c’era una folla impressionante ad accoglierci.
Sulle prime non volevamo fare neanche una conferenza stampa, avevamo solo il desiderio di incontrare i nostri parenti, però poi l’abbiamo fatta e siamo stati travolti da un torrente in piena.
La dittatura in Uruguay non era ancora stata sconfitta, c’erano gli stessi generali, gli stessi ufficiali, e le stesse carceri.
In quel frangente eravamo ospiti dei francescani nel loro convento, al centro di Montevideo, e mi ricordo una scena straordinaria. Prima che me ne andassi via, mi corre incontro un frate e mi grida, Ruso, Ruso (questo è il soprannome di Rosencof, la cui famiglia era originaria dell’Europa dell’est ndr) non ti dimenticare che il primo asado che hai mangiato, appena uscito dalla prigione, te l’ho cucinato io.
La storia è come un fiume, a volte rimane senza acqua e si secca, in altri periodi è pieno di cascate. E all’improvviso tracima, e non ci resta che guardare dove ci porta. Jorge Manrique paragona la vita al lento scorrere dei fiumi verso il mare, che è la morte. Io, invece, credo che la morte non esista».
Il Pepe Mujica è una figura straordinaria, il mondo parla di lui, fanno la coda per intervistarlo. Come era da giovane?
Mauricio Rosencof: «Come adesso, solo più giovane. Assolutamente uguale. Ora ha ripreso ad andare in bicicletta, era un buon ciclista.
Un uomo intelligente e solidale. Un simpatico birbante.
Ne abbiamo combinate tante insieme, ci siamo anche divertiti. È uscita da poco una sua biografia in italiano, Il presidente impossibile. Pepe Mujica, da guerrigliero a capo di stato (Nova Delphi Libri).
Ora ti racconto un aneddoto perché tu capisca bene i suoi percorsi mentali. Una volta eravamo nelle catacombe di Plaza de Toros, e l’atmosfera era tanto irrespirabile, che il secondino se ne andava via e ci lasciava soli, con tanto di autorizzazione del sergente.
Così abbiamo cominciato a parlare, con il Ñeto (Eleuterio Fernandez Huidobro, ora ministro della difesa, ndr), attraverso lo spioncino della cella, a voce molto bassa.
Eravamo così affamati, che sognavamo il cibo, proprio come Sancho Panza. Stavamo parlando di un negozietto, con prosciutti appesi al soffitto, arrosti e ogni ben di dio. Tra l’altro, non potevamo parlare di cose serie perché potevamo essere spiati.
All’improvviso il Pepe se ne esce indignato, dicendo: «Smettetela, sono morto di fame, non parlate più di mangiare. Mi fate star male».
Lasciamo parlare lui: «Secondo voi, quale tipologia di riso può aumentare la produzione delle risaie dell’Uruguay?» Ci spiegò che aveva un’allucinazione frequente: un maiale modificato geneticamente che aveva due vertebre in più e che produceva più carne.
Mentre il Ñeto ed io avevamo una visione letteraria, lui ne aveva una programmatica. Stava calcolando quale fosse il riso migliore da coltivare in Uruguay e come fare in modo che si potesse produrre più carne. Quindi alla fine si era messo a parlare di cibo anche lui».
Come racconti nelle Memorie del Calabozo, deve essere stato terribile per te non poter scrivere mai…
Mauricio Rosencof: «Non ci permettevano neanche di leggere, non potevamo comunicare con nessuno, non avevamo né spazio, né aria, non vedevamo mai il sole, non ci davano acqua, riciclavamo le nostre orine per bere, ci davano misere razioni di cibo, mangiavamo insetti.
Ma la cosa più tremenda era far passare il tempo. Dei tredici anni vissuti in carcere, per undici anni e mezzo siamo stati rinchiusi in un calabozo, sottoterra, lungo un metro e largo sessanta centimetri. Non si riusciva a respirare.
Il cervello usava le sue risorse per la mera sopravvivenza. Mi perdevo a elaborare strutture narrative, a costruire storie, e ciò mi ha permesso di non scivolare nella follia. Vivevamo con la paura che ci fucilassero da un giorno all’altro.
In seguito abbiamo saputo che non volevano farci fuori, che ci tenevano come ostaggi perché i nostri compagni fuori stessero tranquilli. Però avevano deciso di annientarci psicologicamente, di farci diventare pazzi.
Con Huidobro abbiamo inventato un nostro alfabeto morse, comunicavamo battendo le nocche delle dita sul muro: in quelle lunghe giornate di reclusione abbiamo organizzato rivoluzioni e scritto libri a furia di colpi di nocche. Ci siamo raccontati l’infanzia, le malattie, abbiamo fatto patti che ci avrebbero unito per sempre. Siamo riusciti, sempre con lo stesso metodo, a giocare addirittura agli scacchi.
Un giorno irrompono nel mio calabozo due guardie. Il capo mi chiede se fossi io lo scrittore. Gli rispondo: sì, señor. Allora mi dice: il sergente ti ordina di scrivere una lettera per la sua fidanzata. Mi portano una tavoletta, un foglio e una penna.
Succede il miracolo, dopo la seconda lettera la seduco e lei si innamora. Per riconoscenza, mi arrivano due sigarette col filtro. Mi sento come Churchill, dopo che ha vinto una battaglia.
A partire da quel giorno, tutto il carcere inizia a sfilare dentro il mio calabozo e comincio a scrivere lettere per le loro donne. Ascolta Rosencof, io non sono sergente, però ho una fidanzata, puoi scrivere una lettera anche per me?
Mi davano la biro e scrivevo lettere o poesie. Non potevo tenere una penna né un foglio dentro la cella, me li davano ogni volta.
Domandavo il nome della destinataria del poema, lo scrivevo in maiuscolo e in verticale e buttavo giù un acrostico. Mi dicevano: Rosencof fai un acrilico anche per me?
Ora avevo in mano una formidabile merce di scambio, mi davano tabacco, fiammiferi, a volte un pezzo di pane, un uovo sodo, una cosa formidabile. Non sono mai stato meglio».
Mai ti hanno pagato così tanto per la tua scrittura!
Mauricio Rosencof: «Sì (ride), è stata una cosa incredibile. Non vedevo l’ora che fosse di guardia un soldato sensibile, spesso mi chiedeva dei versi per i suoi figli. Mi diceva: sei come un nonno per loro.
Gli domandavo se, durante le sue 72 ore di guardia, mi lasciasse una penna di nascosto. Così sono riuscito a scrivere, su foglie di tabacco La Margarita, una storia d’amore in 28 sonetti, El saco de Antonio, El hijo que espera e La lotta nella stalla, dopo averle tenute tanto chiuse nella testa.
Nascondevo i testi dentro in un tubicino di nylon e poi nella camicia, che consegnavo tutti i mesi ai miei familiari, durante la visita, perché la lavassero. Così è nata la letteratura della camicia.
La lotta nella stalla (opera che è stata messa in scena, per la regia di Mario Jorio all’Elfo di Milano e allo Stabile di Genova ndr) è sopravvissuta grazie alla mia camicetta bianca. Invece, altri testi si sono persi.
La nostra battaglia di tutti i giorni era non morire e tanto meno suicidarsi. Durante gli incontri con i parenti dovevamo avere tanta energia per trasmettere loro confidenza e serenità. Non lasciare intendere il supplizio che stavamo subendo, e nemmeno che eravamo dei poveri disgraziati in attesa di un raggio di luce, che illuminasse il nostro cammino.
Poi abbiamo cominciato ad accorgerci che alcuni nostri compagni agonizzavano e morivano, altri impazzivano. Anche Sendic (il dirigente Tupamaros più famoso a quei tempi ndr) stava male: quando era stato catturato, nella colluttazione, era stato ferito e non riusciva più a parlare bene.
Tra noi c’era un patto: chi ne fosse uscito vivo, avrebbe testimoniato le peripezie che avevamo passato».
Raul Sendic era considerato un eroe dal popolo?
Mauricio Rosencof: «Era simile ad Artigas (1764-1850: eroe nazionale uruguayano ndr), che lottò per la prima riforma agraria, l’unico libertador che è riuscito a ottenerla in America Latina. Diceva: «Distribuiremo la terra in modo che i più poveri saranno i privilegiati. Partiremo dagli indios, i primi ad averne diritto, e dai i gauchos delle praterie».
Raul Sendic, negli anni Settanta, era a capo delle lotte dei coltivatori di canna da zucchero (le loro condizioni di vita erano così dure che nacque un forte malcontento che si concretizzò in una marcia di protesta di migliaia di persone: attraversarono l’Uruguay arrivando fino al palazzo legislativo di Montevideo. Questi lavoratori erano capeggiati da Raul Sendic ndr)».
Da quanto è che non vi vedete con il Pepe?
Mauricio Rosencof: «Ci siamo visti un paio di giorni fa, nel suo ufficio di presidente, in piazza Indipendenza. C’era anche Huidobro, ci siamo fatti una chiacchierata e abbiamo anche incontrato dei produttori cinematografici che volevano conoscerci. Vogliono fare un film tratto dalle mie Memorie del calabozo.
La produzione è spagnola: Tornasol Films. Hanno già prodotto Il segreto dei suoi occhi, che ha vinto il premio Oscar. Kusturica, invece, sta lavorando ad un documentario, che comincerà a raccontare la vita di Mujica, partendo dagli ultimi giorni di presidenza. È un regista straordinario, tutto matto!»
Sei un testimone importante di un periodo molto travagliato della storia dell’America Latina.
Mauricio Rosencof: «E sono ancora vivo e vegeto! (ride)»
Allora ci riprovo: un testimone importante del secolo scorso, però ancora sulla breccia! Ora siete al potere, le vostre idee sembrano aver vinto. Chissà cosa succederà dopo le elezioni del 30 novembre. Perché chiunque vinca, Pepe Mujica non sarà più presidente.
Mauricio Rosencof: «Se perdiamo le elezioni, abbiamo una grande esperienza come opposizione! (dice ridendo e alludendo ai 13 anni di carcere insieme a Mujica)»
Certo molto molto grande! (ironizzo anch’io). Quanto l’Uruguay di oggi è diverso da quello che sognavi quando eri rinchiuso in carcere?
Mauricio Rosencof: «I sogni volano sempre verso il futuro. Mi è molto cara una frase di Eduardo Galeano: L’utopia sta all’orizzonte. Se mi avvicino di due passi, si allontana di due passi. Se faccio dieci passi, l’orizzonte si allontana di dieci passi. Per quanto cammini, non lo raggiungerò mai. A cosa serve l’utopia? Serve a camminare.
I primi cristiani mettevano tutti i loro averi in comune, e ognuno prendeva quello di cui aveva bisogno. La storia si ripete e, a volte, torna indietro.
Un mio personaggio della Lotta nella stalla dice una cosa che sento profondamente. La meta è mettersi in cammino. Quando si prende un sentiero – quando si ha una vocazione come la lotta per l’uguaglianza sociale – è un percorso che si segue per tutta la vita.
Ti puoi confrontare con la noia, la prigione, l’opposizione, la polizia, la morte. E magari, come il Pepe Mujica, diventi anche presidente della Repubblica. Una scelta di vita, che puoi percorrere in tanti modi, però se è una vera vocazione, lo è per sempre».
Come sono nati i Tupamaros
È un Paese strano l’Uruguay. un paese letterario, dove una prigione, Punta Carretas – dove tra gli altri è stato imprigionato anche il Pepe – è diventata un lussuoso shopping center.
Dove uno dei peggiori nemici dell’esercito, il Tupamaros Huidobro, è diventato ministro della Difesa, come mi ha fatto notare un tassista, dove un altro Tupamaros – el Pepe – è diventato presidente della Repubblica?
Mauricio Rosencof: «Per noi è naturale (sorride)! La storia è divisa in tante tappe. Noi Tupamaros siamo il prodotto della rivoluzione cubana, della rivoluzione nazionale boliviana del 1952, del governo guatemalteco di Jacobo Arbenz Guzmán, che aveva espropriato le terre incolte dei latifondisti.
Anche il Che è stato in Guatemala in quel periodo e per sopravvivere faceva il fotografo.
Il Pepe Mujica, da giovane, era un nazionalista, è stato anche anche segretario di un ministro. Sendic, dirigente Tupamaros, era membro del comitato centrale del partito socialista. Io ho militato nelle file dei giovani comunisti e ho partecipato alla fondazione del quotidiano del partito. Quando abbiamo fondato i Tupamaros, avevamo anni di militanza politica alle spalle.
La mia generazione è stata influenzata dalle vicende della guerra civile spagnola. Molti uruguayani sono partiti per combattere nelle brigate internazionali, dove c’erano anche Palmiro Togliatti, Pietro Nenni e i fratelli Rosselli. Mentre i fascisti italiani hanno inviato l’esercito e gli aerei, per sostenere Franco. Sono queste le persone che mi hanno formato.
È sempre la stessa lotta senza fine.
Raul Sendic, il più lucido di noi Tupamaros, grande organizzatore, diceva: il socialismo in Uruguay sarà uruguayano o non sarà. La lotta per il socialismo è un processo culturale e nasce nel cuore e nella testa della gente. E ci vuole molto più tempo di quello che pensavamo all’inizio.
Da giovani credevamo che, avanzando un poco, avremmo avuto l’orizzonte in mano. Invece, come dicevo prima, ci siamo avvicinati sì all’orizzonte, ma lui ha fatto qualche passo indietro. Niente è per sempre».
Alcuni uruguayani dicono che Mujica si è comportato diversamente da quello che predicava.
Mauricio Rosencof: «Il Pepe è stato a capo di un governo voluto da una forza politica, il Frente Amplio, che è unica nel mondo, e non di un governo Tupamaros.
Mi ricordo molto bene una riunione con Salvator Allende, a Santiago del Cile, negli anni Settanta. Ci domandò stupito come aveva fatto il General Seregni a creare il Frente Amplio in Uruguay, una coalizione che comprendeva comunisti, socialisti e Tupamaros, insieme alla democrazia cristiana. Che per loro era una spina nel fianco.
In Uruguay si è giunti ad una tale armonia e tolleranza tra le diverse forze politiche, che ha portato alla coalizione, che ha governato fino a oggi.
Ora, grazie a tutti questi anni di governo del Frente, c’è una legge per cui gli operai e i contadini, i peones – non devono lavorare più di 8 ore al giorno. Prima erano costretti a lavorarne anche 14. Ora semmai prendono gli straordinari. La stessa legislazione vale per le colf. Hanno tutti il diritto alla pensione e alle vacanze pagate. Sono miglioramenti non da poco.
L’Uruguay prima era dipendente dal punto di vista energetico. Oggi esporta energia. Il territorio è pieno di pale eoliche. Stiamo costruendo un porto oceanico, che verrà utilizzato anche dalla Bolivia, dal Paraguay, e dal Brasile.
Tutti i cittadini adesso possono usufruire della sanità pubblica. Già 50mila anziani si sono fatti togliere la cataratta gratuitamente. Prima era solo una prerogativa dei ricchi tornare a vedere di nuovo.
Un altro esempio: credo siamo l’unico Paese che ha regalato un computer portatile a tutti i bambini. Li tengono con cura, non li rompono. Anche a quelli che vivono in campagna isolati. Li abbiamo messi in contatto con il mondo. Imparano l’inglese, attraverso le video conferenze. Lo portano a casa e insegnano come usarlo anche ai genitori. La tecnologia non è più patrimonio – come poter tornare a vedere – solo di una classe sociale.
Se non vinciamo le elezioni, vuol dire che non siamo riusciti a comunicare bene quello che abbiamo fatto, perché tutte queste cose prima non c’erano. Abbiamo un indice di disoccupazione da far invidia a qualche paese europeo: solo il 6%, vuol dire che la disoccupazione quasi non esiste più. La Spagna ha il 25% di disoccupati.
Dieci anni fa tutti volevano andarsene via, c’erano code alle ambasciate spagnola e statunitense, per ottenere il visto. Ora quelle stesse persone stanno tornando.
Non è proprio il socialismo, però c’è il lavoro quasi per tutti (Rosencof si scalda e parla con sempre più entusiasmo). Non è il socialismo, però i peones lavorano otto ore, e così anche le colf. Gli anziani tornano a vedere, quando sono invasi dalla cataratta. I bambini poveri – grazie all’uguaglianza sociale che si è creata – guardano il mondo dentro a un bel laptop di color verde, che usano a casa e a scuola. Non è il socialismo, però è bueno».
E ora i gay in Uruguay si possono sposare
Mauricio Rosencof: «Certo! Siamo per la pari dignità per le differenze sessuali, sociali e etniche. È intrinseca al nostro modo di sentire e di pensare. Però la società fa resistenza, non è ancora preparata culturalmente. Per le donne, ora ci sono le quote. Per legge, nei concorsi pubblici si deve tener conto dei settori meno favoriti della società, e soprattutto degli invalidi».
Sono cambiati i compagni! Che Guevara a Cuba faceva mettere in prigione i gay per rieducarli, ora in Uruguay – con un presidente Tupamaros – è stata fatta una legge che permette loro di sposarsi.
Mauricio Rosencof: «Questo è successo in una Cuba molto machista, e negli anni Cinquanta. Mi sento in sintonia con la rivoluzione cubana per alcune cose, con altre sono in disaccordo!».
Il governo del Pepe ha anche fatto passi avanti per la legalizzazione della marijuana
Mauricio Rosencof: «Questa legge è stata usata contro di noi dalla destra in campagna elettorale. Ne conosco bene l’origine: è nata nel cervello del Ñato (Hiudobro), quando eravamo rinchiusi nel calabozo. Serve a bloccare il narcotraffico. Cosa c’è di male se le piantagioni di marijuana sono controllate, e la vendita non passa attraverso il mercato nero? Così sai chi la consuma e chi la coltiva.
È un tentativo per cambiare le cose, diverso da quello della Colombia e del Messico, dove i trafficanti sono tanto ricchi che possiedono sottomarini. E ora questo tentativo è sfruttato a fini elettorali. I media sono in mano ai conservatori».
Come vedi il futuro politico dell’Uruguay?
Mauricio Rosencof: «L’Uruguay è di fronte a un bivio: o torniamo a essere governati dalla destra conservatrice, o proseguiamo con il processo di sviluppo, portato avanti in questi anni dal Frente Amplio.»
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Rosencof commediografo e la sua lotta nella stalla
Io non mangio carne, e La lotta nella stalla, messa in scena a Milano e a Genova per la regia di Mario Jorio, mi ha colpito molto. Parla del carcere, della costrizione, del delirio degli esseri umani che torturano i loro simili – e chiaramente si rifà alle torture che Rosencof ha subito durante la prigionia.
Ha scelto però la metafora della stalla e delle mucche e lo percepisco come un lavoro molto contemporaneo. Va a toccare anche un tema come quello dello sfruttamento degli animali, sul quale stanno riflettendo in molti. Sempre più persone sono vegetariane, se non vegane.
In Uruguay e in Argentina sono sempre meno invece le mucche libere al pascolo nelle pampas, anche lì la situazione sta diventando simile a quella italiana dove la maggior parte degli animali vive rinchiusa in pochissimo spazio negli allevamenti intensivi.
Mauricio Rosencof: «Se la Lotta nella stalla, diretta da Mario Jorio fosse portata a Montevideo, la lingua non sarebbe un problema – spiega Rosencof – È già successo con Il Duce, un’opera su Benito Mussolini, con cento attori, tradotta da Diego Semini in Italiano e messa in scena al Teatro Solis».
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Sono passati 10 anni da questa intervista. Chissà cosa mi racconterebbe oggi Rosencof che al governo c’è il Partido Nacional che per anni è stata la principale forza di opposizione ai governi progressisti di sinistra del Frente Amplio, guidati dai presidenti della Repubblica José Mujica e poi da Tabaré Vázquez. Ma non è finita qui: Yamandú Orsi del Frente Amplio ha appena vinto le elezioni il 24 novembre ed entrerà in carica il primo marzo del 2025.
Buona fortuna all’Uruguay e alle belle persone che lo abitano.
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Questa mia intervista è uscita dieci anni fa su mentelocale
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